“Le persone che hanno più bisogno dell’ingegno del design, i più poveri - il 90% della popolazione mondiale, sono stati storicamente deprivati di esso.”

 

[Alice Rawsthorn, critico del design]

Quali soluzioni privilegiare per garantire un riparo d’emergenza a chi non ce l’ha? Se si analizza il dibattito intorno a questo argomento, balza immediatamente all’occhio la contrapposizione tra chi si ingegna a trovare il modo di agire hic et nunc, d’istinto e chi, invece, rivendica la necessità di una risposta sistemica, di lungo periodo, quasi sempre affidata alla lunga catena degli interventi pubblici.

In questa contrapposizione - in genere, tra associazioni no-profit e alcune istituzioni - il design, e in particolare il fashion design, entra un po’ sparigliando i giochi. Di solito, infatti, abbraccia entrambi gli approcci: dapprima quello che per semplificare definirei ‘emozionale’ (qualche volta anche un po’ ingenuo), ma subito dopo declinando il progetto in qualcosa che travalica il prodotto e lo trasforma. Ma sarebbe meglio dire che ne enfatizza gli aspetti relazionali. È il paradosso della moda, effimera per definizione, che però - quando si impegna nell’umanitario - genera spesso delle piccole-grandi storie. E lascia un segno tutto meno che effimero. Ecco allora che cappotti e giacche trasformabili, pensati per dare un primo riparo a senzatetto e rifugiati, diventano ‘by magic’ anche opportunità di lavoro per quegli stessi senzatetto. Ed ecco che un gruppo di rifugiati siriani vede riconosciuta la propria abilità artigianale e si guadagna la gratitudine dei senzatetto locali (quegli stessi che, forse, prima li guardavano con sospetto).

In tutti i casi, queste piccole-grandi storie hanno letteralmente cambiato la vita anche ai designer. Forse è proprio il caso di dire che qui l’abito fa il monaco. Alla faccia del proverbio, n’est pas?

in questa sezione

- EMPWR coat

- Adiff, ABITI REVERSIBILI

- Sheltersuit