Arte, artigianato, industria.

14 Agosto 2020

di Anna A. Lombardi.

 

A commento della piccola esposizione fatta da Arteviva durante Udine Design Week 2020 ripropongo qui parte di un testo che scrissi in occasione della mostra “Acciaio domani: saperi, ricerca, futuro”, curata da me per conto di Confindustria Udine. Vi affrontavo il tema della relazione tra arte, artigianato e industria e, sebbene nel caso dell’evento curato dalla textile designer Liviana Di Giusto non si tocchino i grandi manufatti dell’industria siderurgica, bensì delicati oggetti di artigianato artistico, mi sembra comunque interessante riprendere il filo del discorso. Non a caso tra gli artigiani invitati c’è Fabio Comelli, che già avevo selezionato per la mostra Acciaio Domani, e che, per questa nuova collaborazione, propone una bicicletta, apparentemente reale, in realtà composta di mille elementi diversi che, a colpo d’occhio, danno l’idea di una bicicletta. Se fosse un disegno si potrebbe portare ad esempio di uno dei principi della Gestalt, invece ci riporta all’arte fabbrile che, come la tessitura, è tra i mestieri più antichi. Anche i gioielli di Federica Mazzola riportano il pensiero alle attività umane che stanno alla base della civiltà. Non si parla di grandi processi di fusione come nei manufatti che descrivo nell’articolo, ma di processi riprodotti in miniatura e con una variante fondamentale: il decoro. Decoro inteso come decorazione ma anche come conferimento di dignità, che è proprio la funzione del gioiello. Infine, in questa mini-panoramica di quello che, personalmente, preferisco indicare come “arte applicata” invece di “artigianato artistico” (ma magari sono sofismi da progettista, quale io sono), ci sono le opere in carta di Paola Mattiuzzo. Questo materiale antico e straordinariamente versatile che ha rivoluzionato la trasmissione del sapere è affascinante, e misteriose sono le rose giganti che ha presentato a Udine Design Week e che Daniela Sacher, nell’allestire la mostra, ha deposto sul pavimento come fossero nuvole, un prato del paradiso.

 

Ecco il testo del mio articolo pubblicato  nel catalogo di Acciaio Domani: saperi, ricerca, futuro (Silvana Editoriale, 2006) 

 “Astratti dal loro contesto naturale – la fabbrica o il luogo dove sono utilizzati – i manufatti industriali perdono il contorno preciso assicurato da una definizione relativa alla produzione, all’uso o al mercato. E, in questo modo, assurgono a un’altra dimensione, molto meno certa ma assai affascinante.

[…] Oggetti come una cassa turbina e l’armatura di un vano scale, così come un numero infinito di altre macchine e parti di macchine, di solito restano invisibili: nella produzione industriale di questo tipo di artefatti l’estetica è tradizionalmente un elemento secondario e l’opportunità per vedere in funzione o in costruzione i grandi congegni che coadiuvano l’uomo nelle sue imprese è rara. Quando succede, come nel caso della mostra Acciaio Domani: saperi, ricerca, futuro, dove il concetto espositivo prevede la loro collocazione studiata come fossero opere d’arte, se ne può apprezzare la particolare bellezza.

[…]

È difficile non sorprendersi davanti a oggetti spesso imponenti e misteriosi. La loro forma non rimanda a niente di riconoscibile nel nostro mondo di oggetti quotidiani. La dimensione non offre appigli per ricondurli a forme note e usi conosciuti. Di fronte ai loro corpi spesso possenti ci si sente al contempo intimoriti, curiosi, ammirati per le meraviglie della tecnologia. La possibilità di osservarli da vicino ci permette, tuttavia, di collocarli in un contesto più familiare. Cominciamo a capire, per esempio, che la grande fonderia è basata sul lavoro artigianale realizzato con mezzi industriali: grandi dimensioni ed estrema precisione del manufatto sono le caratteristiche principali della produzione.

 

È celebre il brano del Manifesto del Futurismo di F.T. Martinetti, che nel 1909 affermava che “Un automobile  (nota 1) da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo ... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia.”

Occhi allenati a visitare le mostre d’arte potrebbero, di fronte all’esemplificazione dell’armatura per il vano scale, evocare l’immagine di Untitled (Stairs), 2001, opera dell’artista inglese Rachel Whiteread oppure di Costruttivo 1/69, realizzata nel 1969 dal nostrano Nicola Carrino. Del resto, un’intera corrente artistica ha fatto del lavorare con pezzi industriali, o del sottolinearne i segni della lavorazione, la propria proposta concettuale.

 

È stato Marcel Duchamp a inaugurare questa nuova stagione dell’arte con i suoi ready made: decontestualizzando un oggetto d’uso comune, come una Ruota di bicicletta (1913), uno Scolabottiglie (1914) o un orinatoio, che ribattezza Fontana (1917), Duchamp conferisce loro uno speciale valore. L’oggetto rimane, tuttavia, sempre prezioso in quanto segno d’artista. Cosa succede nel momento in cui allo stesso oggetto manca la firma di un autore?

 

Bruno Munari – riproponendo un tema caro all’utopia del design - sostiene che “quando gli oggetti che usiamo quotidianamente e l’ambiente nel quale viviamo saranno anche opere d’arte allora potremo dire di aver raggiunto un equilibrio vitale”. Progettare per lui significa orientare l’industria a produrre oggetti di qualità elevata anche quando si tratta di oggetti comuni di largo consumo. Nella scala di valori che contrappone l’arte all’arte applicata, Munari vede nella progettazione - industriale e non - la strada per diffondere nella società la bellezza dell’arte.

 

Nel lavoro industriale scompare l’autore, parte di una catena di produzione che prevede la parcellizzazione del lavoro, ma rimane la necessità che l’artefatto sia realizzato a regola d’arte. Coloro che hanno contribuito alla produzione di un pezzo ne diventano gli anonimi quanto sapienti artefici. In particolare, questo si apprezza nei grandi getti realizzati per fusione, multipli ottenuti attraverso un processo non dissimile da quello di uno scultore. Cambia il materiale – non sono di metallo prezioso – e la funzione: non andranno ad abbellire un luogo pubblico o privato, ma a comporre una delle macchine che assistono l’uomo nelle sue molteplici attività.

Nel considerare un manufatto dell’industria siderurgica quale oggetto concluso in se stesso, i concetti di arte, artigianato e industria si intrecciano. Viene spontaneo apparentarlo all’arte perché pezzo unico fatto a mano, oppure perché apprezzabile esteticamente per la sua essenzialità minimalista. L’imponenza delle macchine e la tecnologia necessaria a realizzare questo tipo di prodotti, d’altra parte,  fa sì che essi siano immediatamente identificati come squisitamente industriali. Né si può prescindere dal fatto che essi abbiano ragione di esistere solo in quanto caratterizzati da una specifica funzione d’uso. L’apporto professionale dell’individuo è, tuttavia, determinante affinché si realizzino le condizioni di estrema precisione richieste per il perfetto funzionamento delle macchine. E ciò è valido tanto per i grandi pezzi fusori quanto per le delicate fasi di lavorazione del ferro che consentono di trasformare il rottame in acciai specializzati.

 

A partire dalle riflessioni sull’economia delle macchine e delle industrie, Charles Babbage (1792-1871) - l’inventore del calcolatore - intuì la possibilità di una completa automazione (nota2).

Nell’osservare i manufatti industriali esposti nella mostra Acciaio Domani: saperi, ricerca, futuro si intuisce un saper fare che deriva da secoli di esperienza. Si avverte che la bellezza di queste macchine è legata alla loro utilità, la quale - è interessante notare - è quasi sempre al servizio della comunità piuttosto che del singolo individuo. Inoltre, parlando con coloro che intervengono nella loro realizzazione, spesso si avverte una partecipazione non comune. Se ne può dedurre che la perfezione costruttiva è anche espressione di un fare indissolubilmente legato alla qualità delle persone.

Forse anche oggi possono essere le macchine a indicare la strada per il progresso, dove questo è inteso come frutto di ricerca e sperimentazione per raggiungere migliori condizioni di vita per il maggior numero di persone possibile, nel rispetto delle risorse del pianeta.”

 

(nota1) La parola automobile è al maschile nel documento, così come maschile era il lavastoviglie - e non la lavastoviglie - quando cominciò ad apparire in Italia negli anni ’60.

 

(nota2) Babbage definisce la macchina come una combinazione di meccanismi mossa da un motore e suscettibile di eseguire un lavoro. Questi meccanismi possono venire scomposti in strumenti semplici. La divisione sociale del lavoro trova analogia nella divisione delle operazioni fra le diverse parti di una macchina: l’espansione industriale, infatti, diminuisce incessantemente la parte di lavoro affidata agli uomini.

 

nella foto qui sopra: uno scorcio della mostra Acciaio domani: saperi, ricerca, futuro allestita nel museo Chiesa di San Francesco di Udine nel 2006. Curata da Anna A. Lombardi per conto dei Civici Musei di Udine e di Confindustria Udine.

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